Per quanto si possa curare la presentazione e le nobili intenzioni della richiesta, accogliere resta un’attività dello spirito, non certo della mente. Quest’ultima è sempre in difficoltà, si spaventa del nuovo, del non conosciuto, ha paura dell’imprevisto, dei cambiamenti. Io stesso mi sono riproposto di offrire accoglienza in molte occasioni, ma per mille motivi trovo spesso giustificazioni per non farlo. Accogliere, alla fine resta un atto di fede.
“Poi il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno (era in convalescenza dopo essere stato circonciso). Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa' pure come hai detto»” (Gen 18,1-5).
L’ospitalità più diffusa è quella basata sul calcolo e sui vantaggi. Le gentilezze, le premure, le attenzioni sono in genere riservate a chi si conosce, ma c’è sempre il sottile sospetto che si attenda qualcosa in cambio, nelle azioni o nei consensi. Questo tipo di accoglienza non è biblica.
La caratteristica dell’ospitalità è la gratuità e di questa sono modelli in Israele due personaggi: Giobbe e Abramo. Del primo si racconta che avesse fatto costruire la propria casa con quattro porte, una in ogni punto cardinale, per evitare che i poveri faticassero a trovare l’entrata. Di Abramo è ricordata l’accoglienza premurosa che ha riservato a tre uomini stranieri accolti nell’ora più calda del giorno. Quel giorno senza saperlo, Abramo ha accolto Dio nella sua tenda.
“Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All'armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro” (Gen 18,6-8a).
Abramo non solo accoglie, ma prepara del cibo da condividere. Un menù anomalo perché era proibito associare durante lo stesso pasto carne e latticini. Anche oggi molti dietologi avrebbero da ridire. La vera accoglienza sa violare vecchi schemi e rinnovare ogni cosa.
La lingua ebraica non ama le parole astratte, e curiosamente non conosce il termine ospitalità. E’ una lingua concreta come il popolo che la parla, un popolo per il quale sono sacri il rispetto e l’aiuto a chi è nel bisogno, a chi chiede di essere accolto.
“Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l'albero, quelli mangiarono”(Gen 18,8b).
I piani del racconto si capovolgono; Abramo si alza, prepara il cibo e lascia il posto ai nuovi arrivati. Rimane in piedi, si ferma solo alla fine, quasi un passaggio di consegne.
Piacque a Dio l’ospitalità di Abramo, e per mostrare quanto l’avesse apprezzato gli fece un dono inaspettato, quanto desiderato: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie (anziana), avrà un figlio” (Gen 18,10). Ospitalità
è sinonimo di vita, sollecitudine, disponibilità, benevolenza, cortesia, nei confronti di chi, forse più che una casa, chiede di essere accolto nei pensieri, nelle attenzioni, nell’ascolto, nella sua unicità e novità.
d. Andrea