Oggi sembra che il cristianesimo non sia più custode dell’annuncio della risurrezione, della trascendenza, della fede come risposta al limite della ragione umana che si misura con il mistero della vita. Sì, forse ci professiamo ancora cristiani, ma abbiamo abbandonato la fede, quella relazione amorosa intima, vera ed eterna, tra Dio e i suoi figli.
L’unico criterio che sembra prevalere, è di giudicare la Chiesa per la sua efficienza. Ciascuno parte dalla propria esperienza soggettiva e si crea una religione su misura, in base alle proprie idee, riducendo il tutto a un partito, un club o a una società di pensiero. Non si riconosce più a Dio la sua presenza oggettiva. In crisi è lo sguardo di fede: la preghiera allora viene corrosa dall’attivismo, la vera carità si trasforma in una generica solidarietà delegata a qualcuno, la liturgia è abbandonata e trascurata dai sacerdoti fino a raggiungere una totale desacralizzazione, la teologia si converte in politica, i sacerdoti diventano sempre più mondani, il popolo un gregge senza pastori e guide vere. Sembra in atto un accecamento volontario.
Ma la luce della ragione autonoma non illumina abbastanza il futuro. Resta la paura dell’ignoto e le mancate risposte alla morte. Ci accontentiamo di piccoli rimedi, di deboli luci, rinunciando alla “luce” che illumina tutta l’esistenza dell’uomo. Cristo ha detto “Padre consacrali nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17,17). Usciamo dalla crisi vera, se torniamo a consacrarci a Dio, per essere uomini nuovi, testimoni coraggiosi, fedeli all’amore vero che da senso alla morte e la supera.
“Ci fu anche il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». Allora il re irritato comandò di mettere al fuoco teglie e caldaie. Mentre il vapore si spandeva largamente tutto intorno alla teglia, gli altri si esortavano a vicenda con la loro madre a morire da forti, dicendo: «Il Signore Dio ci vede dall'alto e certamente avrà pietà di noi, come dichiarò Mosè nel canto che protesta apertamente con queste parole: «E dei suoi servi avrà compassione»». Venuto meno il primo … Giunto all'ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell'universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita»” (2Mac 7,1-3;7-14).
d. Andrea