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26 Ott

Domenica  XXX^  T.O. anno C – 2019

Con le parole possiamo anche giocare, ma prima di tutto vogliamo comunicare. La grande fatica del loro utilizzo, sta nel fatto che le nostre menti le associano in maniera diversa. “Fariseo”, termine usato spesso nella Sacra Scrittura, vuol dire “separato”. Era il modo per indicare l’impegno di fedeltà alla legge e alla prassi religiosa di alcuni ebrei, per distinguersi da coloro che nulla facevano per diventare santi. La parola “Santo”, significa “separato”… caspita! Separati da coloro che sono chiusi a Dio, cioè da coloro che nel mondo si oppongono alla salvezza proposta da Dio e rivelata da suo figlio Gesù Cristo.

Oggi “separato” ha più a che fare con coloro che hanno fallito il loro progetto d’amore. Esistono i separati in casa, i separati innamorati, i separati dalla nascita, i separatisti religiosi che possono diventare fanatici; comunque sia, si vuole indicare una divisione, più o meno accentuata, subita o provocata tra due o più persone.

“In quel tempo Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato»” (Lc 18,9-14).

A volte presumiamo di essere santi perché ci siamo impegnati per cammini di fedeltà e rettitudine: “ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri”,  ma in verità potremmo essere semplicemente dei farisei, che vogliono far emergere dei meriti per separarsi e distinguersi dagli altri. E’ un rischio sempre presente nelle nostre comunità cristiane.

E’ pericoloso ritenersi giusti, perché questo sottende la presunzione di essere salvati per il proprio impegno, dimenticando invece quanto dice S. Paolo, quando scrive alla comunità cristiana di Corinto: “Che cosa mai possiedi – chiede Paolo – che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7).

Stiamo vivendo un tempo di nuove epidemie: è la peste dell’infedeltà e della mancata umiltà. A macchia d’olio le nostre relazioni partono, ma non decollano mai verso la gioia piena, duratura e matura. Continuiamo a precipitarci di corsa sulla pista dell’amore ma non decolliamo, perché sprovvisti di ali, le ali della fede che conosce la misericordia e la verità.

Separarsi è facile, ma non è mai a costo zero. Separarsi innesca processi di giudizio, di rancore, rabbia, vendetta, ostilità e non solo. Spesso abbiamo la presunzione di essere giustificati nel proporre una separazione dopo essere stati traditi o rifiutati. Ma questo modo di pensare, ci allontana dalla giustificazione portata da Cristo. La “giustificazione”, non intesa come delle scuse da presentare o pretendere per la mancata santità, ma la consapevolezza della gratuità dell’amore di Dio nonostante le nostre miserie. «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato»”.

d. Andrea

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