Strumenti a servizio della vita, uniti dal desiderio di condividere i nostri limiti e le nostre risorse come via di aiuto e di salvezza per altri uomini.
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246° XXIII^ domenica T.O. – anno B – 2021
Ci sono due tipi di viaggi: quello esterno, che ti porta lontano da casa, per visitare luoghi mai visti, abitati da persone diverse per storia, cultura, ritmi, abitudini, tradizioni, ideologie. E’ la ricerca della libertà e di emozioni nuove, ma non sempre questo viaggio ripaga e riempie le aspettative riposte. Il secondo è quello interno, che ti invita ad esplorare quell’infinito che è in noi, nella complessità e nell’avventura di chi ancora attende di essere istruito e orientato, nelle coordinate dello spirito, per ritrovare gioia e pace. E’ un viaggio per molti ritenuto inutile, giudicato troppo impegnativo, dove la consapevolezza e la verità sono considerate pericolo mortale.
“Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»”(Mc 7,31-34).
Possiamo leggere il vangelo anche per conoscere l’itinerario geografico della storia di Gesù. Un uomo che ha il coraggio di uscire dai confini “nazionali” (Tiro e Sidone - Libano), per poi incontrare uomini pagani nella Decàpoli ( tra Siria e Giordania) che lo cercano perché incapaci di risolvere i drammi della vita. Gesù compie un itinerario che lo porta lontano da casa, dalla sua gente, in terra ostile e all’apparenza poca adatta per ristorarsi. Ma come sempre accade, la vita ci consegna sorprese che superano i nostri pregiudizi.
Gesù fa del suo viaggio un’occasione per incontrare, ascoltare, accogliere e guarire. Un viaggio pubblico, che diventa privato. Porta il sordomuto lontano dalla folla, in disparte, per compiere la liberazione-guarigione del malato. Qui opera il viaggio interno, nascosto ai più, riservato a che viaggia con fede, per vedere e ascoltare oltre il conosciuto. Viaggia con prudenza dentro quel mondo che con i suoi meccanismi di controllo e vigilanza, sempre più sofisticati, impedisce ogni azione libera che non sia protocollata. E’ quella scienza che nega il mistero e una verità assoluta.
Gesù non si appoggia ad un tour operator per ottenere garanzie, non stipula assicurazioni per la vita, per evitare quegli imprevisti sempre presenti nei viaggi veri. Non è in un’area confort, né in una clinica privata, ma in terra di missione, terra malata che attende speranza. Non rimane spettatore e semplicemente meravigliato di ciò che incontra, ma entra nella storia di quegli uomini, consegnando loro un sospiro, non di rassegnazione o di indifferenza, ma un soffio che apre e guarisce.
La terapia si svela gradualmente: mani, saliva, contatto, sguardo, sospiro, parola; come in ogni viaggio si accoglie tappa dopo tappa il suo svelarsi per gustare i cambiamenti in atto. E’ la vita nuova del battesimo, un viaggio sacramentale per avvicinarci all’amore vero.
Oggi come cristiani siamo chiamati ad uscire dalle nostre comodità statiche, se vogliamo dare un senso profondo alla nostra fede. Una chiesa che non incontra non salva! Una chiesa che non osa viaggiare verso quei luoghi che ancora non ha visitato, all’apparenza lontani ma così vicini a noi, perde il suo mandato: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15).
Gesù viene pregato di imporre le mani. E’ quel gesto ancora oggi visibile nell’azione sacramentaria della chiesa, per aiutare ogni uomo a viaggiare senza paura nelle vicende del mondo. Le mani inoperose rivelano e raccontano quelle chiusure che rallentano o addirittura impediscono ogni movimento. Le mani di Gesù vogliono servire il cielo.
Non c’è mai un luogo sicuro nel viaggio, ma si può stare al sicuro se amiamo quel Dio che racconta il suo amore con chi annuncia il suo bene: “con il cuore si crede … con la bocca si fa la professione di fede per ottenere la salvezza. Chi crederà in Lui non rimarrà confuso … Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sonostati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!” (Rm 10,10-15).
Ogni viaggio ci consegna un’esperienza, ma spetta a noi scegliere il messaggio da raccontare. Possiamo arrivare in terra straniera per isolarci, abitarla con paura e in totale egoismo. Oppure trasformare ogni incontro per aprire ai “sordomuti” gli orecchi e la bocca, perché possano iniziare la loro esperienza verso il cielo e la salvezza.
Una comunità cristiana vive per allontanare la confusione nell’orientamento alla vita eterna. Abbiamo bisogno di credere, non per vaneggiare e sognare mete inesistenti, ma per procedere verso il Signore che rende vero il viaggio. Abbiamo bisogno di una nuova chiesa che sappia essere credibile, non perché ha una buona dottrina o un’ampia morale, ma perché è abitata da uomini che sono stati guariti, che hanno qualcosa da raccontare del loro viaggio interiore con il Signore.
Tutto può rivelarsi inutile se rimaniamo “sordomuti”, se non accogliamo i racconti di chi incontriamo, la “parola viva” che salva, e non accettiamo di raccontare la nostra fede. Mettiamoci a servizio con amore per coloro che attendono semplicemente di essere accompagnati ad incontrare Cristo Risorto.
d. Andrea
XIX^ domenica T.O. anno B – 2021
Luccica, raro, costoso, desiderato, nascosto, conteso: è l’oro. Da quando sono bambino ho sempre sentito parlare della corsa all’oro. Non tanto per speculazioni in borsa, ma per quell’attrazione che questo metallo ha sempre avuto nella storia dell’uomo. A lui si attribuisce ricchezza, felicità ed eternità. Generazioni di uomini lo hanno cercato e desiderato.
Scrivo questa pagina nei giorni delle olimpiadi, rinviate di un anno per una pandemia che ha interessato tutto il mondo. Un’edizione che passerà alla storia, per due medaglie d’oro italiane nell’atletica leggera, in due discipline mai conquistate: Marcell Jacobs nei cento metri piani, con un tempo di nove secondi e ottanta centesimi, e Gianmarco Tamberi nel salto in alto, con un’altezza di due metri e trentasette centimetri. Strepitoso e commovente anche per i “pagani sportivi”.
Non mi soffermo nell’esaltare l’impresa sportiva dei due atleti, ma mi piace raccontare brevemente la loro storia. E’ la vita di due giovani pieni di speranze e sogni, che si sono scontrate con la dura realtà e la fatica. Viviamo di storie, ci piace ascoltarle perché possono istruire e consegnare “oro colato”. Come cristiano penso che ogni storia abbia bisogno di essere inserita nella “storia della salvezza”, ecco perché considero la “parola di Dio” il mio oro, perché in essa si racconta non solo la storia degli uomini, ma come alcune di queste siano diventate significative.
“Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Lasciò là il suo servo. Egli s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb” (1 Re 19,3-8).
Elia, aveva trovato l’oro. Non quello del mondo, ma quello nascosto agli occhi del mondo: la fede in Dio. Da lui aveva ricevuto la chiamata e l’elezione a profeta, inviato tra gli adoratori pagani a smascherare menzogna e ipocrisia. Uno che mirava in alto, con l’asticella rivolta al cielo, sempre alla ricerca della verità e di una volontà non sua, ma custodita come tesoro prezioso. Era veloce nelle decisioni, come nessuno in quel tempo e nelle olimpiadi dello spirito aveva sconfitto più di cento avversari, adoratori di Baal. Ma un giorno qualcosa si è rotto. Sfinito e deluso pensa di essere solo e incapace di proseguire: vuole morire!
Così per Gianmarco Tamberi nel 2016, in prossimità dei giochi olimpici di Rio de Janeiro, accade l’imprevisto: una rottura del legamento deltoide al piede sinistro. All’apice della preparazione atletica - in quell’anno aveva saltato in alto due metri e trentanove centimetri - la medaglia era cosa certa. La possibilità di lasciarsi morire in quei giorni è stata alta. Tutto sfumato, tanti sacrifici resi inutili in pochi istanti. Ma il Signore manda i suoi angeli, un padre che lo stimola, una buona equipe medica, una fidanzata d’oro che scrive sul gesso in quel periodo buio: “road to Tokio 2020” (poi corretto con 2021,) una ragazza che ha messo in secondo piano la sua vita, per portare questo atleta a dire: “proviamoci!”. Gianmarco accetta la fatica di ripartire.
Marcell Jacobs, vive una rottura diversa, forse meno grave all’apparenza ma con tempi di recupero molto più lunghi. Dopo un anno dalla sua nascita, il padre lo abbandona e la madre da sola, con tanta fatica e sacrifici lo fa crescere. Una ferita aperta per lunghi anni, affrontata e guarita solo recentemente. Un “mental coach” e una squadra d’oro, gli riconsegna la forza per credere in sé e nei doni ricevuti. Una sofferenza che rende salda l’anima dell’uomo nuovo, che corre non per vanità ma per riscattare una vita che sembrava fallita.
Elia riceve un aiuto inaspettato. Una “visita angelica” e un nuovo ristoro. Una voce interiore che lo invita a rialzarsi, a prendere in mano il suo gesso emotivo, come Gianmarco Tamberi, per ripartire. Pensava di essere rimasto solo, di non poter raggiungere la meta, il monte Oreb, alla ricerca di quell’oro così dimenticato dagli uomini che si accontentano delle ricchezze del mondo e non sanno desiderare il cielo.
In questi giorni di agosto la chiesa ha vissuto il “Perdon d’Assisi”. L’eredità preziosa che Francesco d’Assisi ha lasciato ad ogni uomo; primatista per secoli nei “poveri in spirito”. Francesco è beato come pochi uomini nella sua categoria. E’ ripartito da zero, lasciando agli stolti e ai ciechi l’oro del mondo, per cercare fino all’ultimo respiro il senso profondo del nostro vivere: l’amore di Cristo e la sua misericordia, ricevuta e donata. Questo è l’uomo nuovo e ricco.
Mi sono commosso nel vedere una vittoria sportiva nell’atletica leggera, tanto desiderata e forse inaspettata, come vorrei piangere anche per tutte quelle anime, che come Elia, trovano il coraggio della fedeltà in questo tempo, dove tutto sembra precipitare, dove Cristo viene rifiutato ed escluso dall’olimpiade delle nostre storie. E’ lui il vero “oro”! Senza di lui non c’è gioia eterna, ma semplici emozioni temporanee, per quanto intense. Mi piace pensare che questi atleti come il profeta Elia, abbiano incontrato angeli senza saperlo, abbiano quella fede che tanto commuove Dio, così rara in tanti cristiani e nella chiesa.
“L'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Elia - Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb”. Dobbiamo lasciarci toccare il cuore da Dio, per ritrovare la forza per rialzarci e rimetterci in cammino. Se lo fanno gli atleti per un’olimpiade, tanto più la loro determinazione ci doni l’esempio per impegnarci a ricostruire le nostre vite. Quei quaranta giorni sono il simbolo di un’intera vita dedicata per una vera esperienza salvifica e non solo dei brevi tentativi.
Conosciamo la sconfitta e il fallimento, l’illusione e il pianto, la morte e il dolore, ma sono solo l’inizio di un cammino per farci umili e tornare con fede a sperare sul monte – l’Oreb. Lì c’è quel podio, offerto a tutti gli uomini che vogliono vivere ogni momento come un piccolo passo verso quell’oro che si chiama salvezza: Gesù risorto dona la pace e la gioia a suo tempo. Il tempo è prezioso, è come l’oro. Spetta a noi non sprecarlo.
d. Andrea
XVI^ domenica T.O. – anno B – 2021
Siamo sempre più attenti alla nostra alimentazione. Vuoi perché è aumentata l’informazione, vuoi per motivi di salute o di immagine, siamo diventati la generazione delle diete e degli integratori. Non manca però e non mancherà mai, l’eccezione di chi oltrepassa la soglia e il muro di cinta di buone e sane abitudini, perché siamo sempre alla ricerca di qualcosa che manca. Cerchiamo emozioni, ma soprattutto emozioni forti perché queste, hanno un’intensità per segnare la nostra vita, il tempo e la storia. Non ci accumuna la cultura o l’informazione, ma le emozioni, perché sono un’alimento universale.
Lo abbiamo visto in questi giorni. La nostra Italia sportiva, quella del calcio, del tennis, ha entusiasmato e portato tutti alla grande mensa. Credenti e non credenti siamo stati attirati da cibi rari e mai scontati. E’ inutile negarlo: le emozioni sono un alimento. Ci attirano, le sogniamo, le coltiviamo con l’acquolina in bocca sperando di digerire la sequenza degli eventi che possiamo solo sperare, e a volte assaggiare. E’ curioso: da una parte la situazione pandemica ci suggerisce e pretende poco cibo e qualche integratore relazionale, dall’altra parte, un’abbondanza di folla che sembra autorizzata ad un buffet senza limiti dove tutti sembrano finalmente amici e fratelli. Il menù a prezzo fisso non soddisfa mai l’animo umano e neppure lo stomaco.
“Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola,
abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l'inimicizia, per mezzo della sua carne
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani,e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,13-17).
Come cristiano sogno e vedo il giorno in cui con la stessa intensità per cui si esulta per una vittoria sportiva, si gioisca per la Verità, per la carità. La verità è Cristo che è venuto ad abbattere ogni barriera di separazione, che ci impediva di gioire. E’ sua la vittoria sul peccato, sui pregiudizi, sulla menzogna e la morte. Una grande banchetto di cibi ed emozioni forti, che non permetterà di trattenere le lacrime di gioia per questo incontro e per questa vittoria spirituale. Sarà vera pace e armonia tutti uniti dallo stesso amore, accolto e condiviso oltre le fragilità e le miserie umane. Un risveglio che diventa comunione d’intenti, passione non superficiale ma disponibilità al sacrificio e alla fatica, perché tutto sia secondo la volontà di colui che ci salva con il grande alimento: la misericordia. E’ Cristo che para i rigori del nostro avversario - satana - che ci crede già sconfitti.
“Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d'angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,18-22).
Si piange per un traguardo raggiunto, come per una coppa alzata al cielo, lasciando a digiuno e nella tristezza chi l’ha solo annusata. Si può diventare nemici dopo una sconfitta, alimentandosi di emozioni che dividono e allontanano. Gesù umiliato e deriso non vince con la logica del mondo, ed esce sconfitto nella sua finale. Guardando a Cristo, amandolo, accogliendo la sua voce interiore che tocca nel profondo, ci viene data sempre l’opportunità di ripartire con amore e fiducia, nonostante tutto. E’ la Pasqua della vita che sempre si ripropone ogni giorno.
“Ci abbiamo creduto sempre … c’era qualcosa nell’aria”: non sono solo le parole di un buon allenatore, ma dovrebbero essere anche quelle del pastore, del genitore che si commuove e piange per quelle anime che si credono sconfitte, e che disidratate e stanche, si lasciano privare della speranza.
“Ci siamo divertiti e alla logica del singolo ha prevalso quella del gruppo, superando le inevitabili differenze di ciascuno, perché uno era il nostro desiderio: sognare un’impresa!”. Se lo diciamo per il calcio cosa dovrebbero dire le comunità cristiane e la chiesa, che hanno ricevuto l’annuncio dell’amore di Cristo sul mondo? Perché abbiamo poca fede nel nostro redentore? Perché ci lasciamo confondere da quelle voci che ci vogliono sempre uno contro l’altro?
“Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'»” (Mc 6,30-31).
Gesù ci chiama in disparte, come un buon allenatore, che prima di preoccuparsi del gioco sa bene che la differenza la fa lo “spogliatoio”. L’uomo che sa vedere oltre le divisioni, il rancore, le ambizioni personali, la vendetta, l’amarezza, i limiti, edifica nello Spirito e crea un solo spirito, quello del gruppo, quello dei credenti, quello della gioia che può osare in ogni tempo imprese che tutti deridono e in molti hanno dimenticato.
Facciamoci custodi del tesoro che Cristo ci ha consegnato. In questi giorni dove le leggi fanno discutere, dove le leggi creano contrapposizioni e preannunciano un declino della volontà di Dio, quasi come se rifiutare Cristo e la sua parola, fosse una conquista e una vittoria sui diritti. Dobbiamo decidere se seguire le emozioni forti delle seduzioni o quelle di chi vuole rimanere fedele alla Verità. A ciascuno il suo alimento e le conseguenze della scelta.
d. Andrea
CORPUS DOMINI – ANNO B 202
Ogni istante si rischia il tutto per tutto. Non abbiamo il controllo di nulla, anche se certamente paura e prudenza, consapevolezza e percezione, possono aiutare nelle scelte e nel ridurre i rischi. Non passa giorno dove il mondo consegni informazioni sulla sorte di molte persone: incidenti mortali, malattie, violenze, guerre, licenziamenti, stragi, ecc.
Non sappiamo sempre il perché di certi eventi, e spesso ci troviamo disarmati e basiti di fronte a questi drammi. Sembra una roulette giornaliera dove qualcuno vince e qualcuno perde, a volte anche la vita. Che ci sia qualcuno che tira a sorte?
La sorte ci attira e qualcuno ne fa addirittura una dipendenza, un vizio, una mania, un cibo. Proprio per l’incertezza del futuro e per la fatica di accettare il presente, il mondo propone qualcosa su cui puntare, credere e investire speranza: il gioco! E’ il gioco che si trasforma in lotterie, schedine, gratta e vinci, concorsi a premi in denaro, le “ludopatie”, cioè quando il gioco ci rende anoressici o bulimici, consegnandoci uno stato di eccitazione desiderato, con tutte le disfunzioni e gli effetti collaterali della scelta, per alleviare l’angoscia interiore.
All’apparenza il gioco d’azzardo e la ricerca della buona sorte, sembra solo il desiderio di un po’ di fortuna a basso costo, ma nel tempo può creare dipendenza, impotenza, colpa, ansia, depressione, disturbi psicologici, lasciarci poveri e senza cibo.
Nel profondo dell’anima si nasconde il rifiuto di accogliere la fatica del cammino e la responsabilità che la vita ci consegna ogni girono. C’è il rifiuto o una grande inconsapevolezza di come cercare risposte di senso alle inevitabili angosce della vita e ai suoi digiuni. A livello spirituale, senza Dio e un cammino di fede tutto sembra legato al caso.
“Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all'udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno” (Mc 14,10-11).
Questo tempo di isolamento sta poi ampliando il gioco in “rete” per la facilità di accesso; si compie e si sceglie la propria sorte lontano dagli sguardi giudicanti, chiusi nella solitudine della propria prospettiva. Restiamo adolescenti negli atteggiamenti e nelle soluzioni, nella ricerca di guadagni facili. Se poi si vince, la buona sorte sembra “baciarti”, un bacio che può chiederti di tradire l’anima, il prossimo e i beni eterni.
“Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua” (Mc 14,12-16).
In quella stanza, Gesù ha compiuto il “gioco” della sua vita e quella nostra. Non ha fatto un azzardo ma una scelta precisa. Ha chiesto ai suoi amici di seguire un uomo con una brocca d’acqua, simbolo di un cambiamento profondo: il battesimo. Un sì che è un affidare la vita, non alla sorte ma, a Dio che ci ha scelto e che ci ama. Quelle brocca d’acqua ricorda l’amore di un incontro tra la Samaritana al pozzo e Gesù. Una donna che aveva gettato il suo cuore negli “slot” degli idoli del mondo, dei falsi amori, per mendicare affetto e ricchezze vane. Ora, prima dell’ultima cena, questa brocca è piena di salvezza e di verità ritrovata, e viene indicata per salvare.
Gesù sceglie la Pasqua come passaggio dalle dipendenze del mondo a quel memoriale che sta consegnando - Corpus Domini - per coloro che crederanno in Lui. Una cena che cambia la storia e che strappa ogni uomo dalla paura di fallire, dalla sorte, per consegnarci un percorso di fede, di amore vero contro la solitudine e la fame.
“E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio»” (Mc 14,22-25).
Gesù supera la sua angoscia con un gesto di comunione. Ci libera dall’isolamento, dai suoi inganni e dalle sue dipendenze. Gesù ha a cuore la sorte e la vita di ogni uomo. La sofferenza e la prova viene affrontata con un sapersi donare, per rinnovare l’alleanza con il Padre.
Gesù esce sconfitto dal mondo, ma vincitore in cielo, povero ma ricco di anime che ancora oggi lo scelgono come tesoro prezioso per curare ogni sofferenza e realizzare in pienezza i desideri più profondi. Nella gratitudine si affida al Padre e a lui tutto affida.
Per amore si può rischiare il tutto per tutto. Non c’è il caso ma un progetto di redenzione, che lontano dalla fede, dalla preghiera, dall’eucarestia, difficilmente si può scorgere e accogliere.
d. Andrea